“Serve la firma di un bambino”: l’infermiera italiana che racconta la sanità sotto i talebani

di Redazione

Quando una madre non può autorizzare il ricovero di suo figlio e serve la firma di un uomo – anche se ha dodici anni – la sanità smette di essere solo una questione clinica. Diventa una questione di sopravvivenza. È ciò che accade ogni giorno in Afghanistan, come racconta Caterina Volpi, infermiera pediatrica italiana di 31 anni, appena rientrata da una missione con Emergency.

Le sue parole non sono una denuncia astratta. Parlano di bambini lasciati soli in pronto soccorso, di cure ritardate, di decisioni mediche ostacolate da regole che umiliano le donne e mettono a rischio diretto la vita dei più piccoli. Una realtà che interroga anche chi vive lontano, perché riguarda il senso stesso del lavoro di cura.

Curare sotto i talebani: quando la burocrazia diventa pericolosa

Ad Anabah, nel centro di Emergency, Caterina Volpi ha ricoperto il ruolo di infermiera internazionale responsabile della pediatria. La struttura comprende chirurgia, maternità e reparto pediatrico. Ma lavorare lì significa fare i conti ogni giorno con un sistema di divieti che entra direttamente nelle corsie.

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“Un bambino con una polmonite grave non poteva essere ricoverato subito”, racconta. Il motivo non era clinico, ma politico: il padre non poteva entrare nel reparto, riservato alle donne, e la madre non poteva prendere un taxi da sola per raggiungere l’ospedale. Il padre è stato costretto a tornare indietro a prenderla, lasciando il figlio solo in pronto soccorso.

In un altro caso, una madre arriva con il figlio bisognoso di ricovero, ma non può firmare il consenso. Serve un uomo. L’unico disponibile è il fratello del bambino, dodici anni. “Sono ostacoli quotidiani – spiega Volpi – assurdi, che rallentano le cure e aumentano i rischi”.

Non si tratta di episodi isolati, ma di una normalità imposta dopo il ritorno al potere dei talebani, che hanno progressivamente cancellato i diritti delle donne: niente scuola, niente lavoro, niente autonomia, nemmeno quando si tratta della salute dei figli.

Donne escluse, sanità senza futuro

Il paradosso più drammatico riguarda il domani. In Afghanistan, per legge e tradizione, le donne possono essere curate solo da donne. Prima del 2021, questo aveva portato molte ragazze a studiare per diventare infermiere, ostetriche, dottoresse. Oggi non è più possibile.

“Se le donne non possono studiare – spiega Caterina – chi curerà le prossime generazioni?“. Il rischio è un ritorno indietro di decenni: parti in casa, complicanze evitabili, morti materne e infantili che la medicina moderna potrebbe prevenire. Un disastro annunciato che pesa soprattutto sui bambini.

Lo dimostra una delle storie che l’infermiera porta con sé. Una bambina di un anno e mezzo, arrivata in ospedale in condizioni critiche per grave malnutrizione. Pesava appena 3,9 chili. In famiglia era appena nato un maschio e si era dovuto scegliere a chi dare da mangiare. “Hanno scelto il maschio”, racconta. Contro ogni previsione, la bambina è sopravvissuta. “È stata una delle soddisfazioni più grandi della mia vita”.

Una scelta che parla anche a chi resta

Caterina Volpi lavora con Emergency da quando aveva 25 anni. Prima l’Etiopia, l’India, poi Lesbo durante l’incendio del campo profughi, il Mediterraneo centrale sulla nave Ong, quindi Ucraina, Sudan, Uganda. L’Afghanistan è stata l’ultima tappa.

Oggi è tornata in Italia, si è presa un anno di pausa, ha comprato casa e lavora di nuovo come infermiera libera professionista sul territorio. Ma il suo sguardo resta rivolto lontano.

Perché, come dimostra la sua esperienza, la salute non è mai neutra. È legata ai diritti, alla libertà, alla possibilità di scegliere. E in Afghanistan, oggi, essere donna significa essere sistematicamente esclusa dalla cura, anche quando si tratta di salvare la vita di un figlio.

In contesti come questo, curare diventa molto più di un lavoro: è un atto di resistenza silenziosa, che riguarda tutti noi, operatori sanitari, caregiver e cittadini, chiamati a chiederci che valore diamo – davvero – alla vita e alla dignità umana.


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