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La carenza di personale sanitario spinge a cercare soluzioni rapide, ma quando le regole si allentano troppo la sicurezza dei pazienti entra in gioco. È questo l’allarme che arriva dal mondo della sanità sul reclutamento di medici e infermieri extra Ue, oggi spesso ammessi a lavorare in corsia con procedure semplificate nate durante l’emergenza Covid e mai davvero superate.
Il ministro della Salute Orazio Schillaci lo dice senza giri di parole: servono regole chiare e strutturali per verificare titoli e competenze, “a tutela della professionalità degli operatori sanitari e soprattutto della salute dei cittadini”. Un richiamo che riaccende il dibattito su una deroga che, da strumento emergenziale, rischia di trasformarsi in zona grigia permanente.
La deroga Covid che dura fino al 2027
Con il decreto Cura Italia, nel pieno della pandemia, alle Regioni è stata concessa la possibilità di riconoscere in modo semplificato i titoli di studio conseguiti fuori dall’Unione europea. Una misura pensata per fronteggiare l’emergenza, poi prorogata per far fronte a una carenza strutturale di personale che, solo per gli infermieri, viene stimata in circa 70mila unità.
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Oggi quella deroga è destinata a restare in vigore fino al 2027. Nel frattempo, però, l’Intesa Stato-Regioni che dovrebbe mettere ordine al sistema è ferma da mesi. Un blocco che produce effetti concreti nelle corsie: accanto a professionisti stranieri che seguono l’iter ordinario di riconoscimento, ce ne sono altri che esercitano “in deroga”, senza iscrizione agli Ordini e senza un controllo pieno e uniforme delle competenze.
Due sanità parallele dentro gli ospedali
Il risultato, denunciano sindacati e Ordini professionali, è la creazione di operatori di “serie A” e di “serie B”. I primi sono iscritti agli Ordini, tracciabili, obbligati alla formazione continua e coperti da polizze assicurative. I secondi possono lavorare senza questi vincoli, talvolta con conoscenza insufficiente della lingua italiana e con percorsi formativi non verificati in modo rigoroso.
Un mix che diventa pericoloso nella pratica quotidiana: errori nei dosaggi dei farmaci, difficoltà di comunicazione con pazienti e colleghi, valutazioni cliniche inadeguate. Non per mancanza di buona volontà, ma per un sistema che chiede di colmare i vuoti senza offrire strumenti adeguati.
Secondo Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), solo per gli infermieri si stimano circa 15mila presenze non certificate. “Siamo pronti a collaborare con le istituzioni – spiega – per riconoscere i titoli, inserire queste persone in percorsi ordinari e monitorarle sul piano deontologico, linguistico e delle competenze”.
Una risorsa necessaria, ma da governare
Nessuno mette in discussione il contributo degli operatori sanitari stranieri. Dal 2020, con i decreti Cura Italia e Ucraina, sarebbero entrati in Italia quasi 19mila infermieri e 9mila medici, provenienti soprattutto da India, Est Europa, Africa e Sud America. Molti arrivano da sistemi formativi solidi e comparabili a quello italiano.
Il problema non è l’origine, ma l’assenza di un percorso chiaro e uguale per tutti. Come ricorda Foad Aodi, presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia, questi professionisti “sono una risorsa strutturale per la nostra sanità” e vanno valorizzati con riconoscimento dei titoli, formazione linguistica, aggiornamento e inclusione, non lasciati in una condizione di precarietà professionale.
Altri Paesi mostrano che un’alternativa è possibile. L’Irlanda, dove circa il 50% degli infermieri è straniero, prevede prima la formazione linguistica, poi la certificazione delle competenze e infine l’inserimento in un sistema che include welfare e ricongiungimenti familiari.
Cosa significa per pazienti e famiglie
Per chi entra in ospedale, magari per un intervento delicato o per assistere un anziano fragile, tutto questo si traduce in una domanda semplice: chi mi sta curando è stato messo nelle condizioni giuste per farlo? La risposta non può dipendere dalla Regione o da una deroga temporanea.
Chiudere la stagione delle eccezioni non significa chiudere le porte. Significa proteggere i pazienti, tutelare chi lavora in corsia e costruire una sanità che non sia costretta a scegliere tra carenza di personale e sicurezza delle cure. Perché l’emergenza può giustificare scorciatoie, ma la normalità ha bisogno di regole solide.
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