“Non siete scemi”: la primaria che difende gli studenti contro il nuovo test di Medicina

di Claudia

Il dibattito sul nuovo accesso a Medicina non riguarda solo gli studenti. Tocca da vicino il futuro della sanità pubblica, la qualità delle cure e il lavoro quotidiano di chi oggi opera nei reparti. Per questo le parole di Solange Fugger, primaria di pronto soccorso a Roma ovest e divulgatrice molto seguita sui social, stanno facendo rumore ben oltre TikTok.

Dopo il caos dei test e le proteste esplose nelle università, Fugger interviene da una posizione particolare: quella di chi è entrata in Medicina con il vecchio sistema, ma oggi lavora in prima linea in un servizio già sotto pressione. E invita a guardare meno alle contrapposizioni ideologiche e più agli effetti concreti della riforma.

“Non giudico la riforma, guardo ai fatti”

“La selezione dovrebbe avvenire durante il corso di laurea, non prima”. È una delle affermazioni più nette della primaria più giovane d’Italia, che chiarisce subito di non voler entrare nel merito politico della riforma, ma di analizzarne i risvolti pratici. Per farlo, mostra le domande del test che sostenne lei nel 2008 e le confronta con quelle del 2025: “Quelle di oggi sono il doppio più difficili”.

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Il nodo centrale, però, non è solo la complessità delle domande. È il tempo. Gli studenti del nuovo semestre filtro hanno avuto circa 50 giorni per preparare materie come fisica, chimica e soprattutto biologia. Discipline che richiedono studio strutturato, esercizio, sedimentazione. “Un tempo di preparazione ridotto – osserva Fugger – unito a un livello di difficoltà molto elevato”.

Un’accoppiata che, secondo la primaria, rischia di produrre una selezione più casuale che meritocratica. E che pesa in modo particolare su chi non ha alle spalle scuole d’élite, ripetizioni private o famiglie in grado di sostenere costi elevati.

Perché questa notizia riguarda tutti, non solo chi vuole fare il medico

Il punto sollevato da Fugger va oltre l’esame. Se l’accesso a Medicina diventa una corsa a ostacoli concentrata in poche settimane, il rischio è scoraggiare studenti capaci ma meno “allenati” a reggere stress intensivi. E questo ha conseguenze dirette sul sistema sanitario.

Ospedali e pronto soccorso italiani, soprattutto nelle grandi città, lavorano già in condizioni di carenza cronica di personale. Ogni medico che si perde lungo il percorso formativo non è solo un numero in meno all’università, ma un professionista che mancherà tra dieci anni nei reparti, nelle ambulanze, nei servizi territoriali. Un’assenza che ricade su pazienti, famiglie, caregiver e operatori socio-sanitari, costretti a turni sempre più pesanti.

Fugger sottolinea anche un altro aspetto spesso ignorato nel dibattito: questa è la prima generazione di studenti a confrontarsi con una metodologia del tutto nuova. “Sono i primi – ricorda – e la sproporzione tra chi è passato e chi no dovrebbe far riflettere”. In gioco non c’è solo il meccanismo del test, ma anche il livello di preparazione con cui i ragazzi escono dal liceo e la necessità di adeguare qualità e quantità delle domande.

Dalle aule universitarie alle piazze

Nel frattempo, la protesta studentesca continua. Martedì 16 dicembre è previsto un flash mob davanti al ministero dell’Università e della Ricerca, in concomitanza con la prima seduta del Consiglio nazionale degli studenti universitari. Le associazioni denunciano un aumento della competitività, ansia diffusa e il mancato superamento del “problema storico” dell’accesso a Medicina.

A rendere il clima ancora più teso, le parole pronunciate dalla ministra Anna Maria Bernini durante Atreju, quando ha definito “poveri comunisti” gli studenti contestatori. Un’espressione a cui Fugger risponde indirettamente con un messaggio rivolto ai ragazzi: “Non vi demoralizzate. Non siete scemi”. L’invito è a non interiorizzare il fallimento di un test come un giudizio sul proprio valore.

È un messaggio che parla anche agli adulti: genitori, insegnanti, professionisti della salute. Perché il modo in cui oggi selezioniamo i futuri medici dice molto di come immaginiamo la sanità di domani. E di quanto siamo disposti a investire, non solo in numeri chiusi o riforme lampo, ma in percorsi formativi sostenibili, equi e davvero orientati alla cura.


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