Tre giorni di paura al San Raffaele: il racconto di un paziente ricoverato

di Claudia

Un ricovero per una grave mononucleosi si è trasformato, nel racconto di un paziente, in una sequenza di episodi vissuti con angoscia all’interno di uno dei più noti ospedali italiani. È la testimonianza di un uomo di 45 anni che, dopo l’accesso al Pronto soccorso e il successivo ricovero nel reparto di medicina ad alta intensità del San Raffaele di Milano, parla di “tre giorni di paura” segnati da errori, confusione e da quella che definisce una gestione assistenziale inadeguata. Sui fatti è in corso un approfondimento della Procura di Milano, che al momento non ha formulato ipotesi di reato né individuato indagati.

Il ricovero e gli episodi contestati

Secondo il racconto, tutto sarebbe iniziato durante la degenza, quando al paziente – immunodepresso a causa della malattia – sarebbero state somministrate terapie in modo approssimativo. In un episodio in particolare, riferisce di aver ricevuto una compressa di paracetamolo spezzata direttamente sul petto, senza l’uso di guanti. Un gesto che, racconta, lo ha colpito non solo per l’inaspettata modalità, ma per i potenziali rischi legati alla sua condizione clinica.

Nei giorni successivi, sempre secondo la sua versione, si sarebbero verificati ulteriori momenti di confusione: terapie duplicate, farmaci che risultavano non registrati, controlli effettuati in modo impreciso. In più occasioni, afferma, avrebbe dovuto segnalare personalmente di aver già assunto determinati medicinali, evitando possibili sovradosaggi.

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Disorientamento e assenza di continuità assistenziale

Uno degli aspetti più critici emersi nel racconto riguarda la sensazione di discontinuità nell’assistenza. Il paziente riferisce di lunghi intervalli senza personale, di operatori che sembravano non conoscersi tra loro e di informazioni cliniche non condivise in modo efficace. Anche le operazioni più semplici, come la misurazione dei parametri vitali, sarebbero state accompagnate da incertezze e da errori pratici.

In questo contesto, racconta, si sarebbe creato un clima di “mutuo soccorso” tra degenti, costretti a vigilare reciprocamente sulle cure ricevute. Un’esperienza che, per chi si trova in una fase di fragilità fisica, può diventare fonte di forte stress psicologico.

Un volto esperto e la fine della degenza

Nel racconto trova spazio anche un elemento positivo: l’arrivo, durante un turno notturno, di un infermiere con lunga esperienza. Una presenza che, a detta del paziente, avrebbe restituito un minimo di fiducia e di sicurezza, mostrando competenza e attenzione.

Le dimissioni sono arrivate pochi giorni dopo, ma il giudizio resta severo. “Non tornerei più”, avrebbe confidato, esprimendo preoccupazione soprattutto per i pazienti anziani o meno lucidi, che potrebbero non essere in grado di riconoscere eventuali errori.

Un caso che riaccende il dibattito sulla sicurezza delle cure

La vicenda, al di là delle responsabilità che saranno eventualmente accertate, riporta al centro il tema della sicurezza assistenziale e della continuità delle cure, soprattutto nei reparti ad alta intensità. Un tema che riguarda non solo i grandi ospedali, ma l’intero sistema sanitario, chiamato a garantire standard elevati proprio nei momenti di maggiore fragilità dei pazienti.

Racconti come questo sollevano interrogativi che vanno oltre il singolo caso. Seguire l’evoluzione delle indagini e il dibattito sulla qualità dell’assistenza significa interrogarsi sul futuro della sanità e sulla tutela di chi cura e di chi viene curato.


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